Incontro ad alta tensione a Palm Beach

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanjahu si trova oggi in Florida per incontrare il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Al centro del colloquio c’è il futuro della Striscia di Gaza e il piano americano per una pace duratura nella regione. È il sesto incontro tra i due leader solo in quest’anno, segno della rilevanza strategica che entrambi attribuiscono a questo dossier.

Tuttavia, Netanjahu è partito per gli Stati Uniti in un clima di crescente tensione, scegliendo di non farsi accompagnare da giornalisti e senza rilasciare dichiarazioni alla partenza. Un gesto che molti analisti leggono come indicativo delle difficoltà nei rapporti recenti con l’amministrazione americana. Trump, infatti, avrebbe perso la pazienza riguardo alla fragile tregua in corso a Gaza e sollecita con insistenza l’avvio di una nuova fase del processo.

Domande aperte sulla fase due

Netanjahu ha dichiarato pubblicamente che molte questioni rimangono ancora senza risposta: “Qual è la tempistica prevista? Chi invierà le truppe a Gaza? Avremo una forza internazionale di stabilizzazione? E se non ci sarà, quali sono le alternative?”. Questi interrogativi saranno al centro del dialogo con il Presidente americano.

Secondo il piano statunitense, la fase successiva prevede non solo una nuova tregua, ma anche il disarmo della Hamas e l’arrivo di forze internazionali per garantire la stabilità del territorio palestinese. Tuttavia, Hamas ha già fatto sapere di non essere disposta a consegnare le armi.

Pressioni politiche da entrambi i fronti

Netanjahu si presenta all’incontro sotto una duplice pressione. Da un lato, quella esercitata da Trump, che vuole progressi concreti sul fronte di Gaza. Dall’altro, le aspettative interne israeliane, che chiedono al premier di mostrare fermezza. L’esponente dell’opposizione Avigdor Lieberman ha definito questo incontro come un vero e proprio banco di prova della leadership di Netanjahu, affermando: “La questione chiave è se sarà capace di dire ‘no’ a Trump su almeno tre punti fondamentali: nessuna ricostruzione a Gaza senza la restituzione dei corpi degli ostaggi israeliani, nessuna ricostruzione senza il disarmo di Hamas e nessuna presenza turca sul territorio.”

La sicurezza prima di tutto: il punto di vista israeliano

Anche esperti militari israeliani, come l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Jacob Nagel, ritengono imprescindibile che Hamas rispetti tutte le condizioni per la pace. “Serve un piano chiaro e dettagliato per la seconda fase, che includa la restituzione degli ostaggi e il disarmo completo della Striscia di Gaza”, ha spiegato Nagel, sottolineando che anche i tunnel sotterranei utilizzati da Hamas devono essere considerati armi e quindi distrutti.

Il ritiro da Gaza divide il governo israeliano

Nel frattempo, la seconda fase del piano prevederebbe anche un progressivo ritiro delle forze israeliane dal territorio di Gaza, attualmente ancora in buona parte sotto controllo militare israeliano. Ma questa prospettiva non trova consenso unanime in Israele. Il Ministro della Difesa, Israel Katz, si è detto contrario a qualsiasi ritiro e ha dichiarato: “Resteremo nei campi terroristici in Cisgiordania, così come in profondità nella Striscia di Gaza. Non ci ritireremo mai. Non accadrà.”

Una posizione che contrasta apertamente con quella di Trump, il quale auspica un allentamento delle tensioni e una maggiore apertura al dialogo nella regione. Un Israele percepito come invasivo e che viola i confini internazionali potrebbe, infatti, risultare meno credibile agli occhi dei paesi arabi.

La questione dell’annessione e il sogno di uno Stato palestinese

Tra le richieste più controverse, spicca quella dei ministri ultranazionalisti del governo israeliano, come Bezalel Smotrich, che pretendono la piena annessione della Cisgiordania – che chiamano con i nomi biblici di Giudea e Samaria. Smotrich ha lanciato un messaggio diretto al premier: “Signor Primo Ministro, tornate da questo viaggio con l’annessione legale e formale di Giudea e Samaria. È la vostra missione diplomatica presso il nostro più grande alleato, gli Stati Uniti.”

Una richiesta che complica ulteriormente il contesto, poiché numerosi stati continuano a sostenere la nascita di uno Stato palestinese indipendente, una prospettiva che Netanjahu ha sempre osteggiato apertamente.

Emergenza umanitaria a Gaza

Nel frattempo, la popolazione di Gaza continua a vivere in condizioni drammatiche. Le forti piogge e le recenti inondazioni hanno aggravato la situazione nei campi profughi, dove – secondo diversi corrispondenti – molte tende sono sommerse dall’acqua. L’ONU classifica ancora oggi l’intera Striscia come “zona di emergenza umanitaria”.

Un’agenda complicata per Netanjahu

La visita di Netanjahu negli Stati Uniti si annuncia tutt’altro che semplice. Oltre al dossier Gaza, il premier israeliano intende discutere con Trump anche delle strategie da adottare nei confronti dell’Iran, un altro fronte caldo su cui cerca l’appoggio totale di Washington.

Tra promesse, minacce e diplomazia, il viaggio del leader israeliano si svolge sotto il peso di aspettative altissime – e in un contesto regionale quanto mai instabile.